Femminicidi: la stampa ha fatto progressi, ma serve più consapevolezza

Nel 2024, in Italia, 113 donne sono state uccise. Di queste, ben 99 in contesto familiare o affettivo. Sessantuno sono state uccise dal partner o dall’ex. In un clima così drammatico, il ruolo dell’informazione diventa cruciale: perché il modo in cui si racconta la violenza può contribuire alla sua comprensione, alla prevenzione e, in ultima analisi, al cambiamento culturale. Ma come sta raccontando la stampa italiana la violenza di genere? 

Stefania Guernieri, delegata toscana nella Cpo disegna il quadro che riportiamo.

Una risposta arriva dal nuovo Rapporto 2024 dell’Osservatorio indipendente Step – Ricerca e Informazione promosso dall’Università La Sapienza di Roma, in collaborazione con l’Università della Tuscia, le Commissioni Pari Opportunità dell’Ordine dei Giornalisti, della Fnsi, dell’Usigrai e con l’associazione GiULiA Giornaliste.

L’Osservatorio ha monitorato l’intera produzione informativa su 25 testate giornalistiche nazionali nel corso del 2024, analizzando 3671 articoli. L’obiettivo: valutare quanto la stampa italiana si stia adeguando ai principi del Manifesto di Venezia, il documento deontologico adottato dalla Fnsi per promuovere un’informazione corretta, consapevole e rispettosa in tema di violenza di genere.

Tra i dati emersi, colpisce la distribuzione della copertura giornalistica: le testate che hanno dedicato più spazio ai temi della violenza contro le donne sono Il Messaggero (9,9%), La Gazzetta del Mezzogiorno (8,8%) e Il Gazzettino (7,5%). Il picco di attenzione mediatica si è registrato nel mese di novembre (14% del totale degli articoli), in concomitanza con la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, mentre il mese con meno copertura è stato maggio (2%).

Quanto ai contenuti, il femminicidio è il tema più trattato (25%), seguito da violenza sessuale (20%), lesioni personali (18%) e violenza domestica (17%). In sette casi su dieci, la vittima conosce il proprio aggressore, che nel 70% dei casi è un familiare, spesso il partner o l’ex. Solo nel 23% dei casi si tratta di estranei.

Importanti anche le analisi qualitative: nel 71,9% degli articoli, la relazione tra vittima e aggressore è descritta come “problematicamente conflittuale”, con motivazioni ricorrenti legate a gelosia, dominio, possesso. In netto calo, ma ancora presente, la narrazione del “raptus” (3%), una delle semplificazioni più dannose, perché assolve e deresponsabilizza l’aggressore.

La voce delle vittime e la rappresentazione mediatica.

Un dato incoraggiante è il crescente spazio concesso alla voce delle vittime (diretta o mediata da familiari, avvocati, esperti), presente in 5063 casi, contro i 3027 in cui la parola è data all’aggressore. Tuttavia, la rappresentazione della vittima resta spesso ancorata a stereotipi visivi e linguistici: prevalgono i dati anagrafici, le emozioni espresse (“terrorizzata”, “disperata”, “sconvolta”), ma raramente si approfondisce il contesto culturale o sociale in cui la violenza si è sviluppata.

Anche la figura dell’aggressore viene spesso ridotta a etichette: “geloso”, “violento”, “brutale”, “crudele”, con frequenti riferimenti all’origine etnica o geografica, il che rischia di alimentare ulteriori stereotipi.

“La narrazione giornalistica ha fatto progressi, ma le parole contano – sottolinea Mimma Caligaris, giornalista dell’Osservatorio Step e componente della Commissione Pari Opportunità della Fnsi –. È fondamentale non utilizzare espressioni giustificatorie, evitare i diminutivi come fidanzatino, non ricorrere a immagini che normalizzano il rapporto tra vittima e carnefice, come le foto di coppia o dei figli”.

Il caso Giulia Cecchettin e l’impatto sul linguaggio giornalistico.

Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha rappresentato, nel 2023, un punto di svolta nella percezione pubblica della violenza di genere. Non solo per il forte impatto emotivo e mediatico, ma anche perché ha dato il via a una riflessione più profonda sul ruolo dell’informazione.

“Dopo il caso Cecchettin, molte giovani donne hanno trovato il coraggio di parlare, di denunciare. Ma anche noi giornalisti – afferma Caligaris – abbiamo iniziato a porci domande più urgenti sul nostro modo di raccontare”.

Mara Pedrabissi, presidente della Cpo Fnsi, aggiunge: “Il cambiamento parte dal linguaggio, e il linguaggio è lo specchio della cultura. Il nuovo Codice deontologico dei giornalisti e delle giornaliste, che entrerà in vigore dal 1° giugno 2025, contiene indicazioni molto precise e vincolanti su questi temi. È una conquista importante e va fatta conoscere”.

Il Manifesto di Venezia e le responsabilità del giornalismo.

Nel 2017, con il Manifesto di Venezia, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana ha lanciato un chiaro appello a giornaliste e giornalisti per un'informazione attenta, non sensazionalistica, priva di stereotipi sessisti o giustificazioni implicite.

Oggi, con il supporto dei dati dell’Osservatorio Step, diventa evidente quanto sia necessario proseguire su questa strada con coerenza e rigore: la narrazione della violenza di genere non è solo cronaca, ma responsabilità sociale. Il racconto può alimentare o contrastare la cultura patriarcale. Può proteggere o ferire. Può salvare vite.

La Commissione Pari Opportunità della Fnsi e quelle regionali, come la CPO Toscana, sono da anni impegnate nella formazione, nel monitoraggio e nel sostegno a un’informazione che rispetti i diritti delle donne e delle vittime di violenza, come i due seminari del 2024, con la Regione Toscana dal titolo: "Violenza di genere. Il linguaggio giornalistico contro gli stereotipi e per una corretta narrazione rispettosa delle vittime anche dal punto di vista deontologico". Un impegno che sta iniziando a dare i primi frutti, ma che richiede il contributo consapevole e attivo di tutta la categoria.